In ritardo o al passo dei propri tempi?

Orientati di Marco Lombardi

In costante "ritardo"

Sempre in ritardo.



Viviamo molto spesso le nostre vite, tra un ritardo e l'altro. Dagli appuntamenti agli impegni a cui non possiamo mancare, fino ad arrivare alle "fondamentali tappe" della vita. Laurearsi in tempo, impegnarsi in una relazione all'età "giusta", fare famiglia nel momento giusto, sposarsi prima che sia "troppo tardi". E poi? E poi tocca comprare la macchina e, allo stesso tempo, comprare casa e fare il mutuo, prima che sia troppo tardi.

Tardi per cosa? Per chi?

Il fitto labirinto del ritardo

La percezione dell'essere in ritardo non è un meccanismo naturale, ma si genera sempre in risposta a uno stimolo esterno. Dipende solo ed esclusivamente da fattori esterni. Effettivamente, la sua causa principale è data dal confronto con gli ambienti o elementi con i quali ci confrontiamo o che, in qualche modo, prendiamo come punti di riferimento.

La sensazione del "sentirsi in ritardo" sulla presunta tabella di marcia non è solo una discrepanza data da un'errata percezione temporale, né solo un confronto sociale. Piuttosto, affonda le sue radici in alcuni meccanismi biologici che hanno poi ripercussioni sul nostro stato psicologico ed emotivo.

Le fondamenta biologiche di questo aspetto poggiano su alcuni elementi, da cui derivano poi le caratteristiche risposte psico-somatiche ed emotive.

La percezione dell'essere in ritardo viene percepita dal nostro cervello come una minaccia. Una minaccia allo status sociale, alla propria sicurezza futura e all'autostima. Tutto questo attiva un sistema chiamato HPA (asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene), che interviene proprio nelle situazioni di stress. Infatti, a tutti gli effetti, la sensazione di essere in ritardo agisce come elemento altamente stressante (stimolo).

Come funziona questo sistema? L'ipotalamo segnala all'ipofisi di stimolare le ghiandole surrenali a produrre cortisolo (ormone dello stress a lungo termine) e le catecolamine (adrenalina e noradrenalina, ormoni della risposta "lotta o fuggi"). Questo cocktail di ormoni prepara il corpo "all'azione": aumento del battito cardiaco, maggiore vasodilatazione e pressione sanguigna, maggiore tensione muscolare e aumento del glucosio nel sangue. Un meccanismo perfetto che si attiva nel momento in cui dobbiamo gestire imminenti minacce fisiche, diversamente dagli stati cronici che si verificano ai giorni nostri, come ad esempio la sensazione costante di ritardo.

Questo meccanismo, mantenuto cronicamente, ha effetti dannosi e/o disturbanti, come ad esempio la compromissione del sistema immunitario (che diventa meno efficace contro possibili minacce esterne come virus e batteri), l'alterazione completa della qualità del sonno, la modifica di alcuni recettori che regolano il senso dell'appetito e della sazietà, fino al danneggiamento di alcune aree cerebrali come l'ippocampo (memoria) e la corteccia prefrontale (controllo esecutivo).

L'amigdala, una struttura a forma di mandorla responsabile della gestione della paura e dell'allerta emotiva, subisce anch'essa delle ripercussioni. Questa funziona come un "rilevatore di minacce" e si attiva prontamente di fronte a situazioni in cui c'è una possibile deviazione sociale e, quindi, una potenziale minaccia (un meccanismo che discende dal rilevamento di minacce che potevano compromettere l'esistenza della specie). L'amigdala etichetta la situazione di ritardo come una minaccia, ed è qui che si attiva, innescando e amplificando sensazioni di ansia e paura.

La corteccia prefrontale (PFC), responsabile delle funzioni esecutive come pianificazione, processo decisionale, regolazione emotiva e valutazione delle conseguenze, viene anch'essa coinvolta. Sotto stress cronico, le sue funzioni vengono compresse, con conseguenze come incapacità decisionale, poca lucidità nelle scelte e nelle valutazioni, difficoltà a valutare dovuta al groviglio di pensieri, che si presenta disordinato, come le nostre emozioni, che si presentano completamente fuori gestione.

Anche il raggiungimento di obiettivi socialmente validi (matrimonio, famiglia, acquisto di una casa, laurea, ecc.) è associato al rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore responsabile del piacere, attivo nel sistema di ricompensa. "Essere in ritardo" ci porta lontani dalla possibile percezione di questi piaceri o ricompense tanto attesi. Questo può portare a una diminuzione della produzione di dopamina o a una sua forte desensibilizzazione, portandoci verso un vortice di anedonia (incapacità di provare piacere) e apatia, con bassa motivazione e spesso con sfumature depressive. Quindi il ritardo verso il mancato raggiungimento di questi obiettivi crea un deficit "dopaminergico", con conseguenze emotive di rilievo.

In tutto questo, anche la serotonina, durante una fase di stress cronico ("sono sempre in ritardo"), subisce un'alterazione. Di fatto, essa regola proprio i livelli di ansia e impulsività. Una sua alterazione comporta disturbi dell'umore, possibili stati depressivi, irritabilità e pensieri ossessivi (disturbo ossessivo-compulsivo). Infine, l'ossitocina, legata al bonding sociale, alla fiducia e al senso di appartenenza. E come potrebbe farci sentire "fuori passo"?

Isolamento e sensazione di giudizio aumentano proprio in seguito all'alterazione di questo ormone.

Conseguenze psicologiche aggravate: la mente nel vortice emotivo.

In tutto questo, le manifestazioni emotive trovano un terreno fertile nei meccanismi biologici, come quelli elencati precedentemente. Soprattutto le emozioni giocano un ruolo cruciale in questo tipo di passaggio.

Tra queste, troviamo proprio l'ansia pervasiva, una condizione invalidante in alcuni casi, in quanto non ci permette di vivere appieno la propria vita, se il riferimento è quello di un possibile ritardo. Non si tratta solo di uno status mentale, ma di una risposta fisica vera e propria (attivazione HPA e amigdala). Lo stato ansiogeno rivolge principalmente il suo sguardo verso condizioni future, in cui ci si prospetta in "ritardo" rispetto a modelli o parametri di riferimento. Costante rimuginazione, disturbi del sonno, alterazione dell'umore, squilibri alimentari sono tutte conseguenze di uno stato di ansia degenerativo.

Vergogna e senso di colpa, facenti parte del nucleo emotivo dell'identità, sono altre due protagoniste tra le emozioni corrispondenti "all'essere in ritardo". Due vissuti emozionali dolorosi e molto potenti, che agiscono e lavorano in sottofondo oppure in piena superficie. La vergogna nasce come asimmetria e discrepanza tra il "sé sociale" e il "sé percepito come in ritardo". È strettamente legata alle sensazioni di essere o sentirsi difettosi, inadeguati, esponendosi così a giudizi negativi da parte degli altri. Questo senso di vergogna può portare a un effetto "freeze response", un blocco/congelamento delle azioni, che ci porta a chiuderci in noi stessi, ricercando così meno "contatto" con le persone.

Il senso di colpa deriva da un'azione giudicante (giudice) che rivolgiamo a noi stessi. Un fardello emotivo, in quanto le "alte pretese" del giudice interiore non ci permettono di cogliere aspetti meno formali e quindi più umani. "Avrei dovuto essere lì in quel momento" oppure "Dovevo essere più veloce per fare in tempo" sono giudizi che non lasciano scampo a una maggiore self-kindness.

Questo continuo "mancare il bersaglio", questo essere perennemente in ritardo o, meglio, sentirsi in ritardo, ci fa sentire frustrati e arrabbiati. Emozioni che spesso vanno a braccetto tra loro, generando un vero e proprio blocco energetico emotivo. Ovvero, diventano un tappo per le altre emozioni, in quanto predominanti. Nello specifico la rabbia è spesso una legittimazione che abbiamo in seguito a eventi che crediamo non siano andati come volevamo. Molto spesso, di questa emozione se ne abusa oppure la si reprime. La verità è che semplicemente ci sta comunicando che qualcosa non ci piace, non è adatto a noi. Dall'altra parte, la frustrazione è legata a quel senso di impotenza, all'incapacità di liberarsi da quelle catene che crediamo di portare. Entrambe possono essere fatte detonare dall'innesco del sentirsi sempre in ritardo.

Tra gli indiziati non potevano mancare la tristezza e la demoralizzazione. Il ritardo può essere visto come una perdita: perdita di tempo, di opportunità, di momenti e così via. Una delle risposte comuni è la tristezza, che è legata proprio a questa presunta perdita. Se prolungata, può influenzare i nostri pensieri, che a loro volta avranno come effetto a cascata una demoralizzazione sistemica, una completa sfiducia in sé stessi. La sfiducia in sé stessi è il precursore di una possibile bassa autostima. Emozioni che definiscono il sé, un sé definito come "ritardatario", che fallisce sempre il colpo. Questo status viene alimentato da un cattivo utilizzo della parola, che si manifesta in frasi come "sono un fallito", "sarò sempre in ritardo", "arrivo sempre secondo", "non valgo abbastanza probabilmente", parole che permettono che la "profezia si auto avveri": un ritardatario fallito nella vita.

Questo mix tra tratti psicologici ed emotivi crea una realtà completamente deformata o comunque modellata sulla base di una percezione non lineare, probabilmente disadattiva. Da una parte potenti motori comportamentali, quali le emozioni, che possono catalizzare e accentuare gli aspetti biologici e psicologici che riguardano questo aspetto: il sentirsi in ritardo.


Un cattivo modello da seguire, una cassa di risonanza potente: la nostra società.

Viviamo in una grande fabbrica del ritardo. A tutti gli effetti, questa è una società veloce, iperproduttiva e perennemente orientata alla performance.

Una società che si contraddistingue per tanti aspetti, tra cui la contraddizione: da un lato, il crescente progresso tecnologico promette di alleggerire il carico di lavoro e la fatica; dall'altro, invece, abbiamo sempre meno tempo per noi, siamo sempre più stressati, sempre in ritardo sui "tempi". Una strisciante sensazione di inadeguatezza temporale ci affligge durante le nostre giornate, ci sottrae alla vita e ci toglie realmente tempo.

Tutto questo non è un atteggiamento o un approccio personale alla vita, ma è dato dal modo in cui ci è stato indicato di vivere. È quello che ci viene chiesto costantemente. Un risultato diretto dell'ideologia, delle narrazioni e delle strutture che caratterizzano la società che ci circonda.

Uno dei valori postmoderni è proprio la velocità. Dalla produzione di serie fino alla digitalizzazione, la velocità è diventata un valore cardine. Internet, tecnologie veloci, messaggi istantanei, consegne rapide in 24 ore: tutto ciò ha ormai influenzato il nostro modo di vivere e percepire le nostre vite. La lentezza, la riflessione, la cura dei dettagli e la gradualità sono ormai visti come difetti, come inefficienza. Lo stesso tempo non è riuscito a sottrarsi a questa sorte: viene frammentato, monetizzato e destinato all'ottimizzazione assoluta, affinché diventi produttivo. Tutto questo ignorando la nostra natura, i nostri ritmi, le nostre capacità. Conta solo l'efficienza.

Al contempo, un concetto individuato dalla psicologa Bernice Neugarten è il "Social Clock". Si riferisce proprio alle aspettative culturali tipiche dei nostri tempi: finire gli studi in tempo, trovare subito lavoro, trovare un partner, sposarsi, avere figli e costruire una famiglia, comprare casa, acquistare un'auto e così via, fino ad arrivare al pieno compimento degli "obiettivi sociali che contano". Sebbene questo orologio esista da un po', sembrerebbe che sia diventato ancora più rigido, con tempi ancora più stretti.

Non conformarsi a questo orologio sociale, invece, significa andare incontro a un fallimento sociale che diventa, a sua volta, personale. Lo stigma della deviazione sociale dal percorso indicato rappresenta un vero e proprio limite per chi decide, invece, di non volersi uniformare a questi tempi dettati, ma piuttosto di seguire i propri tempi, di stare al proprio passo.

Questo ci porta a celebrare eccessivamente la precocità, creando una cultura della giovinezza. Tutti vorrebbero rimanere giovani e oggi tutti ci provano, indotti proprio da una certa ideologia e narrativa di base che caratterizza la nostra attuale cultura. Si celebrano i prodigi, gli under 30, gli under 20, sempre più giovani; bisogna ambire al successo fin da giovani. Tutto questo crea un'idea finta e sbagliata del successo. Chi va al di fuori di una certa fascia di età è fuori dai giochi, fuori da ogni possibilità.

Questa fretta, che ci porta a essere sempre in ritardo, comporta la richiesta conseguente di aumentare le nostre capacità, che devono essere performanti, per garantire l'iperproduttività di una società volta al super consumo.

Oggi la professione, il nostro lavoro, non è solo uno strumento che ci permette di garantirci sostentamento e supporto economico, ma è una vera e propria identità sociale. Un'identità primaria (Workism), ovvero il valore di una persona viene misurato dal volume di produttività che riesce a sostenere. Ore e ore passate al lavoro, per il lavoro, consentono di ottenere uno status sociale di rilievo, considerato giusto e adeguato. Una cultura che va a glorificare l'incessante lavoro (Hustle), l'essere sempre impegnati e oberati di cose da fare.

Ma tutto questo non basta: bisogna anche ottimizzare il proprio lavoro. Accorciare i tempi, migliorare le prestazioni e mantenere un volume comunque alto. Chiaramente le conseguenze sono disastrose, in quanto questo scenario guarda solo alle possibilità di aumentare la produzione, l'efficienza e l'ottimizzazione, ignorando che non sia umano.

A completare il quadro ci sono i social media, un'imbarazzante vetrina che mostra una visione distorta della realtà, creando confronti esasperati e deformi. Palcoscenici globali, le più importanti piattaforme social mostrano come dovrebbe andare il mondo. Il mondo dei folli, che trascinano moltitudini di seguaci a seguire trend e mode, per monetizzare o semplicemente perché è la tendenza del momento.

Queste vetrine creano un'esperienza parallela che induce a distorcere la realtà, cercando di modellarla su quella dei social media.

Insomma, una società incentrata sul risultato e nient'altro.

Un esperienza personale: da sempre "in ritardo".

Mi sono sentito da sempre un "ritardatario" e, di fatto, me lo sono sentito dire molto spesso.

In ritardo sugli appuntamenti, in ritardo con le diverse tappe della vita, in ritardo soprattutto nelle cose che sentivo non mi appartenessero affatto.

Ad esempio, per quanto riguarda gli appuntamenti relativi alla mia sfera personale, ero costantemente in ritardo. Me la prendevo con calma, con molta calma. Indipendentemente dal tipo di appuntamento o dalla sua importanza, a meno che non fosse grave, me la prendevo sempre con calma.

Per quanto riguarda le fatidiche tappe della mia vita, è stata la medesima cosa, ma non è stato così facile, né tanto meno immediato comprendere il perché agissi in quel modo. Ho iniziato tardi a giocare a calcio, ho acquistato a 21 anni il mio primo motorino, la mia prima macchina è arrivata invece a 25 anni, e ho iniziato l'università all'età di 28 anni. Non ho acquistato casa (e non credo che seguirò questa mania, accompagnata dai prezzi folli), non mi sono sposato e né tanto meno ho famiglia o figli.

Insomma, ancora una volta fuori tempo. Eppure sto bene, perché sto agendo con i miei tempi, secondo ciò che credo sia utile e giusto per me.

Ma, come dicevo, non è sempre stato così semplice accettare tutto questo, vivendo in una società scandita da tempistiche "rigide".

Essere un "ritardatario", in un mondo che ti vuole puntuale e al passo con i tempi, può diventare un impedimento o addirittura motivo di sofferenza, se non si è bravi a gestire la situazione.

Ti guardano come se fossi quella famosa "pecora nera" che, fuori dal branco, decide di non omologarsi a tempistiche che non rispettano le proprie. Piovono giudizi, non solo da chi è lontano, ma a volte da chi ti è vicino, come i familiari. "Loro" sanno cosa è giusto per te, cosa ti farà stare bene, cosa ti occorre, ma la verità è che niente di tutto ciò è reale.

Impari a stare bene quando decidi di essere te stesso, di prestare fede solo a te e a ciò in cui credi. Impari a raggiungere una consapevolezza stabile e una solida sicurezza, quando decidi di ascoltarti e accettare la tua natura.

Solo tu puoi sapere cosa è giusto per te e ricordati che, nel caso in cui non dovessi saperlo, prenditi la libertà di scoprirlo, rimanendo te stesso.

"Dilatare il tempo": non tutto è priorità.

Non tutto è perduto e, se ti dovessi sentire in ritardo, non è detto che tu sia in svantaggio.

Partiamo dal presupposto che, per sentirsi in ritardo, bisogna paragonarsi e confrontarsi o con gli ambienti circostanti (scuola, palestra, gruppo di amici, ecc.) o con le persone che si hanno intorno (amici di scuola, amici, conoscenti, fratelli e così via). Allo stesso tempo, è inevitabile fare confronti, considerato che noi, in quanto specie, apprendiamo attraverso le relazioni sociali, che comprendono anche il "confronto sociale".

Va tenuto ben a mente, però, che non è necessario andare veloci, come non lo è trasformare tutto in priorità. Non è costruttivo vivere in ansia e in apprensione costante: sarebbe un inutile spreco di energie che non ci fa avvicinare agli obiettivi, né tanto meno ci mantiene in salute.

Le strutture che ci circondano, la nostra cultura, l'ideologia e la narrazione suggeriscono che andare veloce sia l'unica via. Una corsa contro il tempo che non vinceremo mai; un tempo serrato, irrequieto e scandito da tempistiche rigide.

O si va a quel passo, altrimenti, se in ritardo, ci percepiamo come se vivessimo con un handicap, una debolezza o come veri e propri falliti.

Tuttavia, non vengono quasi mai valutati alcuni aspetti, addirittura i vantaggi che si celano dietro "l'essere in ritardo".

Oggi viviamo nell'era della FOMO (Fear Of Missing Out), ovvero la paura costante di essere tagliati fuori. Ottimizzazione e multitasking frenetico, per cercare di non restare indietro, rischiando di perdersi il meglio. Ma se per un attimo ci interfacciassimo con la vera realtà, capiremmo che non ci sono sempre caselle da spuntare né obiettivi da raggiungere, e avremmo come risultato un'improvvisa dilatazione del tempo.

Questo passaggio cognitivo è cruciale per sbloccare e liberare energie mentali ed emotive utili alla nostra crescita ed evoluzione. Le nostre azioni subirebbero miglioramenti e, allo stesso modo, anche le nostre giornate e la nostra vita. Ma quali potrebbero essere nel dettaglio questi vantaggi?

Per prima cosa, "essere in ritardo" vuol dire implicitamente "andare più lentamente"; quindi, questo si traduce in maggiore ascolto e osservazione di sé, sia per ragioni temporali sia energetiche. Di fatto, la consapevolezza rifugge dalla corrente delle aspettative sociali. La consapevolezza ci permette di comprendere meglio noi stessi, i nostri interessi e i nostri limiti.

Andare più lentamente (https://www.orientatibenessereesalute.com/praticare-lentezza-e-non-azione) o fermarsi completamente ci permette di interrompere questo meccanismo continuo, allevia "i rumori" e porta con sé una maggiore capacità di discernimento. Questo ci permette di comprendere meglio ciò che davvero conta per noi e ciò che invece è semplicemente standard sociale. In questo spazio che si viene a creare si inseriranno scelte autentiche, che rispecchieranno il vero sé. Ad esempio, iniziare un percorso di studi a 30 anni implica una scelta matura e non dettata dalla classica tappa post-diploma. Questo vuol dire una maggiore maturità nella scelta e nelle possibili conseguenze per il futuro.

Proprio a proposito delle scelte mature, "il ritardo" coincide con una maggiore maturità cognitiva ed emotiva nella scelta.

Nel pratico, questo avviene perché l'esperienza accumulata, anche attraverso fallimenti intermedi o percorsi non lineari, affina la capacità di valutazione, la gestione delle emozioni e la comprensione delle conseguenze a lungo termine delle proprie azioni. 'Fuori tempo' vuol dire scelte meno impulsive.

Aver navigato nelle incertezze, gestito delusioni o semplicemente osservato le esperienze altrui dà una prospettiva leggermente "distaccata". Tecnicamente, la corteccia prefrontale, responsabile della capacità di giudizio e della pianificazione, è più matura in quanto arricchita di esperienze.

Tutto questo si traduce in qualcosa che tutti vogliamo, ma che molto spesso bistrattiamo o facciamo passare in secondo piano: salute e benessere fisico e psico-emotivo. Esporsi meno, o non esporsi affatto, a quelle che sono le pressioni sociali e alle continue presunte scadenze ci permette di evitare lo stress cronico. Insieme a esso, anche il confronto sociale continuo, la sensazione di inadeguatezza, la competitività, la performance e le ansie scompaiono completamente. I vantaggi diventano molteplici: ritmi più naturali e vicini ai "nostri", pause appropriate e rigenerative, maggior tempo per sé e per le proprie attività, maggior tempo per attività rigeneranti. Insomma, si esce da quella forma di schiavitù, vivendo appieno il proprio tempo. In tutto questo, anche le relazioni ne traggono enormi vantaggi. Avere più tempo vuol dire avere modo di scegliere relazioni in maniera consapevole. La scelta delle nostre relazioni sulla base della consapevolezza ci orienta verso rapporti autentici, forti e soprattutto sani. La costruzione sostituisce la continua sostituzione, come la stabilità elimina il ricambio continuo.

So cosa ti stai chiedendo: e in tutto questo, la carriera professionale?

Anche in questo caso, il successo non sarà come quello di una guerra lampo. Chi segue i trend o le mode, se lo si osserva attentamente, ha spesso un tempo di vita professionale breve: raggiunge un picco elevatissimo, per poi cadere in caduta libera.

Quando invece si seguono tempistiche diverse, il successo non è immediato, ma viene costruito passo dopo passo. Si fa tesoro del proprio percorso, senza focalizzarsi esclusivamente sull'obiettivo. La crescita a quel punto diventa graduale e duratura.

Il tutto diventa una maratona ben gestita e non uno sprint esauriente.

Stare ai propri tempi

Probabilmente verrà spontaneo dirsi: "Però non è facile". Ma è anche vero che non esistono obiettivi veri, duraturi e sani che siano facili. Non è facile, perché operare una scelta diversa in un mondo "tutto uguale" richiede coraggio e impegno costante. D'altronde, però, alla fine non abbiamo molta scelta, se non fare quella più sensata: scegliere noi stessi.

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